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Storie di fede, vite donate e amicizia

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di STEFANIA CAREDDU foto GIOVANNI PANOZZO

 

La formazione accademica della generazione Covid19 è a rischio. Uno studio dell’Università Federico II di Napoli a maggio scorso ha rilevato che in Italia almeno 10 mila giovani (due terzi nel sud) potrebbero rinunciare ad iscriversi all’università quest’autunno perché la situazione economica delle famiglie è scossa dalla pandemia. È a repentaglio il loro futuro, oltre che le prospettive di sviluppo del nostro Paese, già ora fanalino di coda Ue per numero di laureati. Ancora troppo pochi per una democrazia tecnologicamente avanzata.

Davanti a quest’emergenza educativa, l’Università Cattolica del Sacro Cuore ha fatto la prima mossa: con l’Istituto Giuseppe Toniolo, suo ente fondatore, ed Educatt (la fondazione per il diritto allo studio dell’ateneo) ha bandito on line 100 borse, più 100 premi di studio in base al merito.

La partecipazione è gratuita, senza distinzioni. A ciascun borsista 2.000 euro, rinnovabili negli anni, 3 mila per chi alloggerà nel campus. Fondi che si aggiungono alle 3 mila borse di studio annue Educatt per reddito e merito. “È tempo di attenzione e condivisione.
Non è carità intellettuale, avrebbe detto Papa san Paolo VI, né solo un contributo economico, ma l’inizio di un percorso di umanesimo integrale”, chiarisce don Giorgio Begni, dell’Istituto Toniolo e assistente pastorale all’Università Cattolica.
Con un’economia che tarderà a riprendersi, il bando verrà ripetuto? “Penso proprio di sì. La situazione è occasione, dice il nostro arcivescovo Mario Delpini. I tempi non sono facili, ma reagiamo con creatività e dedizione verso gli studenti”. Da tenere d’occhio dunque nei prossimi semestri il sito borsepermeritouc.it.
Don Giorgio, varesino, classe 56, era indeciso se diventare medico o insegnante: “poi scoprii che stare dalla parte del Vangelo significa indovinare la vita”, dice.
Non poté contare su speciali risorse negli anni del seminario: “sono stati tanti i ‘grazie’ sperimentati lungo il mio percorso sacerdotale. Oggi vanno ai fedeli che donano l’Offerta per il nostro sostentamento. Raggiungendo anche me e la missione di traghettare gli studenti verso il futuro”.

 


Domestiche senza diritti, l’aiuto della Chiesa

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di ELISA PONTANI foto FRANCESCO ZIZOLA /AGENZIA ROMANO SICILIANI/CARITAS INTERNATIONALIS

 

Merawi, in Etiopia occidentale, Amarich è una formatrice impegnata nel  progetto della ong italiana Cvm (Comunità volontari per il mondo), sostenuta da fondi 8xmille: insegna accesso al microcredito a ex domestiche, spesso con i figli. Emigrate giovanissime verso la capitale Addis Abeba o all’estero, al rientro si ritrovano marchiate dal pregiudizio sociale che le isola, anche economicamente. “Ho 20 anni, vengo da una famiglia povera – racconta Liya, una di loro – Volevano farmi sposare da bambina, così sono scappata”. “Quando i miei genitori sono morti, ho lasciato la scuola per fare la domestica. Lavoravo anche di notte per imparare il lavoro” spiega Marjani. “Sono ragazze vulnerabili, non sempre istruite – indica Amarich – Emigrano anche se è rischioso. Oltre le mura delle case dove vengono assunte, dal Libano all’Egitto, dal Sudafrica alla Turchia ai Paesi arabi, diventano invisibili. Spesso subiscono stupri. Tra loro dilagano i suicidi”. Il reclutamento corre sui social network. Ma il lucroso trafficking delle giovani dalle zone rurali dell’Etiopia, pur denunciato da decenni nei report internazionali, prosegue senza conseguenze giudiziarie. Se le famiglie si indebitano per farle emigrare, poi dedicano anni a risparmiare per farle tornare indietro. ‘Condividi e vinci una domestica etiope’:  in Bahrein il governo ha stigmatizzato annunci di agenzie per l’impiego come questo nel 2019, ma la realtà delle colf senza protezione e della mentalità predatoria nei loro confronti non è cambiata. In Libano, nelle località balneari e nelle piscine è frequente il divieto alle domestiche di nuotare e diversi asili non ammettono i loro figli.

 

Quelle emigrate nel Paese dei Cedri sono circa 250mila. Il sistema di sponsorship (kafala) le lega direttamente alle famiglie, e così le esclude dalle tutele statali del diritto del lavoro. Con la pesante crisi economica causata dal Covid la loro condizione è precipitata: vengono licenziate, molte dormono in strada. Caritas Libano assicura loro un riparo, talora i rimpatri. Con un progetto sostenuto dalle firme dei fedeli italiani (24 mila euro), ha avviato corsi di formazione professionale, aiutandole a cambiare lavoro. A chi rientra in patria, onlus come quella di Amarich insegnano ad avviare attività in proprio con il microcredito: dalla tessitura all’allevamento, alla vendita di prodotti caseari, mantenendo se stesse e le famiglie”. “Diamo sempre volentieri il nostro aiuto alla promozione delle donne attraverso istruzione e microcredito – spiega don Leonardo Di Mauro, direttore del Servizio Cei per gli interventi caritativi a favore del Terzo mondo – Le Chiese locali con il nostro supporto spesso fanno la differenza: perché anche piccoli progetti hanno un impatto importante sulle persone e sul loro cambiamento di vita”. “Fino ad oggi non avevamo mai avuto informazioni sui nostri diritti – dice Marjani – Siamo esseri umani”.

 

 


Con la crisi il nostro dono servirà più di prima

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di PAOLA INGLESE foto FRANCESCO ZIZOLA

Nonostante gli oltre due mesi di confinamento in casa, che hanno reso impossibile un normale afflusso agli uffici postali, il primo semestre dell’anno si chiude con un bilancio meno pesante del previsto. Merito di uno spirito di comunione che si è fatto largo tra lo smarrimento e le difficoltà economiche delle famiglie. Ma i ritmi della partecipazione non potevano che essere discontinui:  dopo i dati incoraggianti fino a febbraio scorso, a marzo e aprile è arrivato il blackout. Alla pandemia i fedeli italiani hanno risposto a giugno dando man forte alla risposta solidale della Chiesa:  2.737 donazioni in più (+86%) rispetto allo stesso mese 2019, con un incremento di 125 mila euro per la raccolta complessiva (+67%). Degli effetti  di quest’accelerazione beneficia l’intero semestre: sul fronte dei soli bollettini postali, il numero di Offerte donate cresce del +18,7% (4.500 donazioni in più) rispetto al 30 giugno 2019. A sua volta anche l’importo complessivo si irrobustisce rispetto ad un anno fa (+8,8%): 1 milione 485 mila euro, a fronte dei precedenti 1 milione 360 mila euro. Comprensibilmente frena il contributo medio: non più 56, ma 51 euro (-8,4%).

Dunque i fedeli hanno edificato un argine di generosità, che è un attestato di fiducia verso il ruolo dei parroci in questi mesi inediti. E ricompone idealmente il vincolo con la comunità, proprio nelle settimane di distanziamento obbligato e celebrazioni senza l’assemblea. Nell’estrema incertezza occupazionale e sociale, si mostra radicata la determinazione di chi ama la Chiesa e sostiene l’opera dei sacerdoti. Per questo a chi potrà raggiungerli – anche con un piccolo segno concreto – nel servizio moltiplicato che li aspetta in questa seconda parte del 2020, va il grazie più grande. La direzione della fraternità, più salda di prima, è del resto quella indicata da Papa Francesco: “Il virus – ha detto il pontefice – nel grande dolore ci ha fatto riscoprire un’unica famiglia. È il tempo di avere un nuovo sguardo sul mondo, mettendo in circolo gli anticorpi della solidarietà. Non possiamo riscrivere la storia con le spalle rivolte alle sofferenze degli altri. Abbiamo visto l’unzione versata da tanti, dai medici ai sacerdoti, che non hanno smesso di fare ciò che sentivano di poter fare e che dovevano dare. Se ci comporteremo come un unico popolo potremo avere un impatto reale. È la nostra speranza che ci permette di contemplare la realtà sofferente con uno sguardo rinnovato”.


La parola ai nostri lettori

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LA TESTIMONIANZA / 1

“Durante il Covid la preghiera mi ha sostenuto”

Nella nostra zona il covid ha colpito duramente, abbiamo avuto un tasso di contagi tra 7 e 10 casi ogni mille persone. Ma nell’angoscia oltre cento si sono riuniti a pregare via streaming il Rosario per il parroco di Santa Maria Rossa, don Franco Amati, ricoverato per aver contratto il virus in forma grave. Don Franco si è salvato, come diversi amici. Altri invece ci hanno lasciato. Ma quella preghiera insieme, nello smarrimento, mi ha sostenuto. Il ritorno alla normalità dentro è difficile. Don Franco è tornato a celebrare la Messa lo scorso 24 maggio, festa dell’Ascensione. Nel Vangelo di quel giorno abbiamo letto: “Ecco io sono con voi tutti i giorni”. E nella colletta: “Padre, nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te”. Anche se faticheremo a tornare al ‘prima’, perché la prudenza è ancora indispensabile e tutto è cambiato, penso che tanti, nelle chiese rispetto a prima semivuote e nelle case, stiano facendo un cammino di fiducia in Dio e di affidamento, sperando gli uni per gli altri, contando gli uni sugli altri. Abbiamo tanti grazie in più da dire.
Anna Crescenzago (Milano)

 

LA TESTIMONIANZA / 2

Don Antonio, prete per amore del suo popolo

Vorrei sapessero tutti chi era don Antonio Di Stasio, sacerdote della diocesi di Ariano-Lacedonia morto per covid. Originario di Montefalcone Valfortore (Benevento), da sacerdote ha vissuto il Concilio Vaticano II. Si vedeva il suo amore per la parrocchia di San Liberatore dove ha operato per 29 anni, poi spostato a quella della Madonna di Fatima, fino all’ultimo incarico come parroco della basilica cattedrale di Ariano. Un sacerdote innamorato di Maria: ogni anni volava a Fatima, non mancava mai alla festa del 13 maggio. Io gli dicevo scherzando che ormai era di casa, era familiare di Fatima. Un sacerdote che -come ci ricorda Papa Francesco- aveva addosso l’odore delle pecore e si dava da fare per amore del  suo popolo. Il suo ricordo sia di esempio per i nuovi sacerdoti. Un arrivederci davanti a Dio mons. Antonio Di Stasio.
Raffaele Ariano Irpino (Avellino)

 

 

INCARICATI

Don Zuccarino, ci hai insegnato ad aiutare i sacerdoti

Il carissimo don Edoardo Zuccarino ci ha lasciati. Piccolo grande incaricato diocesano per il sovvenire a  Genova, poi referente regionale per la Liguria, aveva 92 anni. A 27 era diventato  sacerdote. Così spiegava il valore di ogni dono: “basta un euro al mese -diceva quando ‘inventò’ i bussolotti, le cassettine per le Offerte adottate poi in tutta Italia- Eliminate le sovvenzioni statali, è con le Offerte dei fedeli che vivono i preti. Quel che non è cambiato è il piacere di aiutarli da parte di chi frequenta la chiesa e apprezza il loro operato”. Il Signore ricompensi il suo testimone fedele.
Grazie a Marco di Montelupo Fiorentino (Firenze) e agli altri offerenti che ci hanno scritto della scelta di continuare a donare come facevano i genitori. Una storia di famiglie vicine alla missione dei sacerdoti, in cammino con tutta la Chiesa. “La presenza del prete –scriveva il cardinale Attilio Nicora- sia giovane o anziano, sia brillante o un po’ logoro, è un miracolo permanente dell’amore fedele di Dio, che continua a ‘prendere carne’ in mezzo a noi attraverso il volto amico di un uomo che ci vuol bene in nome Suo e per questo non si stanca di parlarci di Lui, anche quando non vorremmo ascoltare. È questa la funzione dei sacerdoti. E così essi ci riscattano dall’illusione e dalla disperazione e ci aiutano a credere alla possibilità di diventare uomini nuovi”.

 

Grazie anche a…

Giuseppe di Torino, Franco di Venezia, Giuseppe di Roma, Gloria di Sasso Marconi (Bologna), Valfranca e Luigi di Chiesina Uzzanese (Pistoia), Elena di Pioltello, Rosalia di Marghera (Venezia), Sergio di Trento,  Giovanna di Stintino (Sassari), Maria Teresa ed Enrico, Enrico di Avigliano (Potenza), Adele di Atri (Teramo), Roberto di San Benedetto Po (Mantova), Paola di Lugo (Ravenna), Emanuele di Catania, Maria di Botricello (Catanzaro). Il nostro ricordo affettuoso e grato va ad Anna di Montelupo Fiorentino (Firenze), Rosa e Vincenzo di Mantova, Michele di Roma, Caterina e Germano di Gussago (Brescia) tornati alla casa del Padre. Chiediamo ai sacerdoti di ricordarli nelle Ss. Messe con tutti i donatori.

Il mistero d’amore che ci rivela Dio

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a cura di TERESA CHIARI foto AGENZIA ROMANO SICILIANI/CREATIVE COMMONS

 

La Santissima Trinità ci appare il mistero più lontano e inafferrabile. Come avvicinarci?
È un enigma per la ragione, ma è anche quanto di più vicino a noi possiamo immaginare: perché è il Dio-amore, mistero di comunione nella sua dimensione più alta e più vera. Piuttosto che con la mente, possiamo intuirlo con il cuore dove lo Spirito ha la sua dimora. Lì si può avvicinarlo. Tre persone che si amano così tanto da essere – da sempre – una sola. È “il Dio dell’amore e della pace’’ come lo chiama san Paolo (2 Cor, 13, 11-13).
Il Signore si rivela e si nasconde. E’ così anche nelle Scritture?
È la modalità in cui Dio si fa conoscere. Come nell’Eucaristia, il suo nascondimento non ci schiaccia, non si impone, ma ci fa sentire quanto siamo amati. È così che ci mettiamo in ascolto e in ricerca. Pensiamo nell’Antico Testamento ai tre personaggi misteriosi che visitano Abramo alle Querce di Mamre. O a Mosè, che davanti al roveto ardente chiede al Signore il suo nome: “sarò Colui che sarò -gli viene detto- Sono il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe”, cioè Dio disvela l’orizzonte di un progetto da realizzare insieme. Gli parla di mettersi in cammino, aprendosi ai fratelli e conformandosi a Lui, in un atteggiamento di continua conversione. Poi nel Cantico dei Cantici: l’amata cerca l’amato che si è rivelato ma si cela, sa che c’è ma non lo trova al risveglio. E’ innamorata dell’attesa dell’altro che ancora non è lì, ma attesta la sua presenza. Il Signore è Parola, azione e misericordia che non ci abbandonano mai. E ama chi ascolta la sua voce. Dio ci supera infinitamente: per questo si rivela e si vela. Lo vedremo così come è solo quando saremo davanti a Lui.
E nei Vangeli?
A differenza dei sinottici (Matteo, Marco e Luca, ndr) negli scritti giovannei respiriamo già la Trinità, la contemplazione del mistero di Dio nella sua profondità. Fin dall’inizio, l’inno del prologo (‘In principio era il Verbo’) ci immette in questa relazione del Padre con il Figlio e lo Spirito Santo. Quando viene presentato il Verbo “che in principio era presso Dio” ed “era Dio”, che si è fatto carne, ha preso dimora tra gli uomini e poi è tornato al Padre, sprofondiamo nella Trinità. “Dio nessuno l’ha mai visto, l’Unigenito ce lo ha rivelato” e il Figlio è rivolto verso il Padre nell’atteggiamento dell’abbraccio che non si consuma mai, come nel roveto ardente. Il fuoco, la forza di questo abbraccio continua ad ardere da sempre e per sempre. I 18 versetti iniziali sono la chiave di lettura dell’intero Vangelo di Giovanni. Il prologo è nel segno del ‘noi’: Giovanni e la  giovane Chiesa vivono ogni giorno alla luce di Cristo e della Trinità. In una comunità unita ‘Dio-relazione’ si manifesta: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Lo Spirito in una comunità unita porta ad aprire il cuore, a contemplare l’indicibile. E’ respiro trinitario, che non dice mai nulla di sé ma ci parla del Padre e del Figlio. E così fanno il Padre e il Figlio: uno rivela l’altro. “Chi vede me, vede il Padre” dice Gesù (Gv 14,9): il Padre porta a compimento il suo disegno nel Figlio e lo Spirito fa luce su entrambi, in un abbraccio che ci dà la vita.
Eppure quello dell’evangelista e dei primi cristiani non era un periodo storico facile.
Giovanni e i suoi affrontavano persecuzioni e divisioni interne. Guardare alla Trinità non solo li consolava per la promessa di beatitudine, ma tracciava la loro identità comunitaria contro la tentazione di dividersi. Anche per noi, in tempi di individualismo sfrenato e contrapposizioni, la Trinità è la strada da seguire. La verità infatti non è un principio, ma una presenza e una relazione che ci mostra quello che dovremmo essere. Dunque non egoisti e idolatri di noi stessi, ma figli, bisognosi di amore e chiamati ad amare. Il mistero trinitario parla anche di generazione (‘generato non creato’) come una relazione autentica, che rispetta l’altro, non lo mette in secondo piano, non lo sfrutta, ma lo asseconda nella sua pienezza. Nella Chiesa e in famiglia, la Trinità è una scuola di verità per le nostre relazioni, da quelle coniugali al rapporto genitori-figli: ci insegna paternità e maternità, figliolanza e fraternità, così come l’Unigenito è il solo che può rivelarci il Padre, la sua forza e la sua tenerezza. All’opposto, la tentazione semina sfiducia, il peccato rescinde la relazione. Come tra Caino e Abele, o nelle coppie ferite: il demonio, il “divisore” strappa e getta via, sfregia la comunione per cui siamo stati creati e deturpa la nostra identità improntata sulla Trinità.
Come scorgere un’impronta trinitaria nelle nostre comunità o nei matrimoni, segnati da fatiche, talora da fallimenti?
Quando, nonostante inadeguatezze e cadute, riusciamo a dare segni del bene che ci vogliamo, dei pesi che portiamo l’uno dell’altro, a perdonarci, allora riusciamo a dire qualcosa di Dio, trasmettiamo un riflesso di quello che Lui è, del mistero di unità e di amore che Lui è. Marito e moglie, padre e madre, in forza del sacramento sono chiamati ad essere profeti della Trinità. Amore e unità sono la via per vivere già qui con Dio e in Dio, in attesa della casa che ci attende: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in Lui non vada perduto ma abbia la vita eterna” (GV 3,16).
La mistica santa Elisabetta della Trinità diceva: “Amare è imitare Maria, esaltando la grandezza di Dio”.
Maria genera il Figlio nello Spirito, ma sempre nell’ottica della gratitudine e della libertà: “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia” (Gv 1,16); questa è Maria! La Sacra Famiglia è icona trinitaria, in cui ognuno si muove verso l’altro ed è al servizio dell’altro. Non lo possiede, ma lo riconosce come dono. l

«Fede e spirito di comunità ci faranno ricominciare»

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di GIORGETTO GIUGIARO designer industriale
testi a cura di MANUELA BORRACCINO foto ALBERTO PEROLI per ITALDESIGN

Sarà come nel dopoguerra: tutto da ricostruire, da ripensare. Con la differenza che negli anni ’50, specie quelli come me nati nei piccoli borghi come Garessio, eravamo abituati ad una vita semplice e qualsiasi conquista era un miglioramento delle condizioni di vita precedenti, mentre le giovani generazioni di oggi che dovranno inventare nuovi modi di lavorare e produrre hanno conosciuto il benessere e il comfort. Ed ora la pandemia, oltre a gravi perdite umane, ci ha portato ad un impoverimento. Come avverrà la ripartenza? È molto difficile fare previsioni. Ma spero che questa crisi porti a riscoprire che le vere fonti di valore per le nostre vite sono le relazioni umane e quelle con l’ambiente: non siamo solo individui e consumatori, ma persone interdipendenti con gli altri e con il territorio. Tale è stata per me l’ininterrotta relazione con la mia comunità di origine di Garessio, un paese di 3 mila anime fra Cuneo e Imperia, sulle cui montagne mi diverto ogni domenica ad andare in trial. Arrivai a Torino a 14 anni, nel 1952: volevo andare all’Accademia di Belle Arti poiché tutta la mia famiglia, dal mio bisnonno a mio padre, proveniva dal mondo della pittura e del disegno: una dinastia di artisti musicisti in un paese in cui c’erano più chiese che case, patria di uno scultore di fama internazionale come Giuseppe Penone, dove l’oratorio era il luogo del cinematografo, del gioco, dello stare insieme e dove il parroco era leader della comunità. Con il grande quadro del Mortorio che ho dipinto per i miei 80 anni a Garessio per la nostra chiesa di San Giovanni, ho voluto rendere omaggio alla memoria collettiva, e far conoscere a chi arriva questa rappresentazione sacra che celebra il connubio fra fede, arte, musica, scenografia. Avevo 3 anni quando mio nonno iniziò a farmi giocare a passare gli spilli sopra le linee dei suoi disegni: dal Rinascimento è il primo passo per la campitura degli affreschi. 
Quando mi trasferii a Torino non sognavo l’automobile. Sono arrivato quasi per caso alla progettazione tecnica: entrai diciassettenne nel Centro Stile Fiat come apprendista designer. Nel 1959 ero alla Carrozzeria Bertone e l’anno dopo, a 22 anni, disegnai la prima Alfa Romeo Sprint. E poi l’Iso Grifo coupé, la Fiat 850 spider e la Mazda Luce 1500/1800. Tra il 1965 e il 1967, anni nei quali visitai per la prima volta il Giappone, disegnai la Maserati Ghibli, la De Tomaso Mangusta e prototipi come la Fiat 850 Vanessa. Fino a fondare nel 1968 con Aldo Mantovani la Italdesign.
Come si coglie il gusto di un’epoca? Al successo si arriva per un training lunghissimo: in nessuna professione ben riuscita ci si improvvisa. Ad un giovane non posso che consigliare di studiare il più possibile. Si osserva quello che c’è sul mercato, si apprende a riprodurre l’esistente, nasce il desiderio di fare qualcosa di diverso: più sportivo, o più funzionale. Con il tempo e l’esperienza si impara a dare nuova forma alla bellezza, come avviene per la bellezza delle donne, che con il passare degli anni cambia impercettibilmente, nei dettagli e nei lineamenti. Penso che il comune denominatore del mio lavoro sia stato la ricerca dell’equilibrio tra le proporzioni, la semplicità e la funzionalità.
Certo i prodotti devono portare alle aziende risultati economici, ma oggi più che mai la creatività è a rischio di venire asservita da parte di chi ha le leve dell’economia. In Italia abbiamo avuto la fortuna di avere dei grandi creativi, artigiani diventati industriali, come Enzo Ferrari, Nuccio Bertone, Sergio Pininfarina: rispetto alla Germania, abbiamo avuto il vantaggio di offrire un’alternativa più edonistica dei prodotti di massa. E l’Italia ha portato avanti a lungo queste produzioni di nicchia perché c’era un artigianato così abile e capace da rimanere sul mercato con prodotti quasi personalizzati e relativamente economici. Anche oggi le nostre piccole e medie imprese, insieme alla riscoperta dei borghi e della terra, potranno essere punti di forza per superare la crisi causata dal Covid-19.

 

UNA LEGGENDA DEL MADE IN ITALY

«La mia strada disegnata con la matita»

È stato dichiarato nel 1999 “car designer del secolo”, ma lui si definisce “un manovale della matita”. Classe 1938, nato a Garessio (Cuneo), Giorgetto Giugiaro dal 1959 ha calcato le scene dell’industria automobilistica e poi dell’oggettistica (suo, fra gli altri, il telefono fisso Sirio entrato in tutte le case) fino a divenire icona del made in Italy. Ha firmato decine di vetture, dalla Golf  alla Panda, e beni di consumo progettati con la sua Italdesign (oggi è presidente di GFG Style guidata dal figlio Fabrizio). Il suo stile gli è valso 7 lauree ad honorem e 5 premi Compasso d’Oro. M.B.

Chi dona per i sacerdoti moltiplica la speranza

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MASSIMO MONZIO COMPAGNONI direttore del Servizio promozione Cei per il sostegno economico alla Chiesa

 

Cari lettori,

entrando in questa comunità, la vostra comunità di fedeli attivi sostenitori della Chiesa e delle sue attività, raccolgo con gioia un testimone carico di responsabilità. Per me è l’inizio di un cammino insieme a voi che accompagnate con l’Offerta e il vostro amore la missione dei sacerdoti diocesani che operano nei paesi spopolati o nelle periferie urbane, con i volontari nelle opere per i più soli o per sostenere i giovani.
Nel tempo vorrei instaurare con voi un dialogo attraverso le pagine di Sovvenire, attorno a storie, rendiconti e testimonianze, cercando di incontrarci ogni trimestre per sostenere chi annuncia oggi il Vangelo con la Parola e le opere, chi aiuta il Paese degli ultimi a superare le difficoltà e a riprendere fiducia, perché a fare il bene sono in tanti, sempre meglio visibili, anche attraverso le pagine del nostro giornale.
Chi si ritrova su Sovvenire è l’esempio di una Chiesa partecipe e misericordiosa che dà testimonianza: i fedeli corresponsabili e informati sulle necessità della Chiesa che prima di altri hanno sentito che era tempo di fare un passo avanti. Testimoni concreti di uno spirito ecclesiale che trasmette responsabilità e gioia ai sacerdoti. Come ci ricorda spesso anche Papa Francesco, il loro annuncio rinfranca il nostro cammino, ma anche la comunità viva, con la sua vicinanza e aiuto, fa il buon sacerdote.
Così la nostra ‘comunità a distanza’ è una lanterna che indica la via di casa, sempre accesa anche nelle stagioni più incerte, come quella attuale. Quest’autunno, alle prese con le grandi necessità innescate dalla crisi sanitaria, economica e sociale, vivremo probabilmente mesi inediti e complessi.  Per questo l’aiuto di tutti, anche piccolo ma donato in tanti, darà ancora spazio alla speranza. Il sovvenire è infatti scuola di condivisione: insegna a tessere relazioni fraterne e a non dimenticare, a ricordare con il cuore e donare quanto si può con gioia, insegna appunto a sovvenire. È un modello di carità e di vita di cui avremo sempre più bisogno.

 


Famiglie e imprese in difficoltà, le diocesi rispondono

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A cura di DANIELA DE VECCHIS (Bologna), STEFANO NASSISI (Pescara), TERESA CHIARI (Cagliari), MANUELA BORRACCINO (Novara)

foto AGENZIA ROMANO SICILIANI / EMANUELE GIOVANNI SANDON (Novara)/ MAURIZIO COGLIANDRO/CREATIVE COMMONS

BOLOGNA
“Ora serve un nuovo modello di carità”
“Se una crisi inedita disegna nuovi profili di povertà, allora anche la carità va ripensata. Il Fondo San Petronio (FSP) nasce per aiutare chi, per l’emergenza Covid, ha perso il lavoro o ha visto ridursi significativamente la sua attività” spiega don Matteo Prosperini, direttore della Caritas di Bologna. Cambiano i poveri e cambia il tipo di aiuto. “Mentre accompagniamo come sempre i più fragili e l’utenza ordinaria in un cammino di sostegno, ai nuovi vulnerabili diamo risorse immediate, sul conto corrente, per rimettersi in moto e scongiurare il pericolo che vadano ad ingrossare le fila della fragilità”. Voluto dal cardinale Matteo Maria Zuppi e finanziato dall’Arcidiocesi di Bologna con un milione di euro, all’FSP “sono arrivate oltre 2.300 domande, di cui più di 500 risultate idonee. Abbiamo già consegnato i primi assegni, tra 400 e 800 euro al mese (in base alla condizione di singolo, coppia e al numero di figli), reiterabili fino a tre volte”. 
“È stata dura restare chiusi due mesi e mezzo –racconta Cinzia, parrucchiera – e alla riapertura si sono aggiunti i costi della sanificazione del locale. Sola con due figli, il Fondo mi ha dato la concreta possibilità di fare la spesa, senza non so come avrei fatto”. Tra le domande accolte anche quella di Maria, originaria dell’Iran, che con il fratello ripara biciclette e potrà far fronte ad affitti e scadenze. “Oltre alle bollette arretrate -afferma Paolo, pizzaiolo- ho pagato il dentista per mia figlia. Ringrazio di cuore la Provvidenza e chi ci ha aiutato”. Ma urge un cambiamento di mentalità. “La carità – osserva don Matteo – è sempre stata interpretata come l’aiuto del ricco al povero, una donazione del superfluo, mentre le operatrici dell’ FSP si sono trovate spesso di fronte persone come loro, con richieste che faremmo pure noi se ci trovassimo improvvisamente in rosso, come un tablet per i figli o la spesa. Si impone dunque una riflessione: oggi aiutare significa fondamentalmente condividere”. L’FSP, aggiunge il sacerdote, 43 anni, approdato alla vita consacrata sull’esempio di tanti preti instancabili nell’aiutare il prossimo, “è uno strumento pastorale perché ha creato una rete tra parroci e Caritas”. Sullo sfondo, il sostegno dell’8xmille, “risorsa che ci dà la possibilità di fare progetti a lungo termine”. D.D.V.

 

PESCARA
“Custodiamo il lavoro e le persone”

Piccoli imprenditori. Artigiani. Famiglie monoreddito. Precari. Lavoratori non in regola. Prima dell’emergenza Covid molti riuscivano, seppur a fatica, a sbarcare il lunario. Ora però rischiano di sprofondare. Sono almeno 500 le nuove famiglie seguite dalla Caritas nel territorio di Pescara-Penne, il 30% in più. Per loro il “Salvadanaio della solidarietà, un fondo d’emergenza costituito da offerte di fedeli. “L’aiuto fraterno non si è fatto attendere: siamo già a oltre 60 donazioni” racconta Corrado De Dominicis, direttore Caritas, che ha ereditato il progetto avviato da don Marco Pagniello, chiamato a Roma al coordinamento delle politiche sociali e welfare della Caritas nazionale. “L’emergenza non è finita, ora bisogna ripartire con gli strumenti giusti. In questa prima fase provvediamo alle esigenze più immediate, come affitti e utenze. Poi proveremo a riavviare alcune attività con un aiuto economico e sosterremo il rientro nel mondo del lavoro con tirocinii formativi. Per dirla con Madre Teresa, questa è la nostra goccia nell’oceano. Una goccia che guarda oltre, che si propone di salvare il connubio indissolubile tra persone e lavoro e di custodire così la famiglia”. Una goccia che presto sarà pioggia. S.N.

 

CAGLIARI
“È tempo di vivere per gli altri”
È già in funzione a Cagliari il Fondo diocesano di solidarietà. Dotazione: 1 milione 61 mila euro. Cioè l’intero contributo straordinario ‘covid’ inviato dalla Cei grazie alle firme 8xmille. “L’inedita crisi sociale innescata dalla pandemia rischia di far cadere tanti nell’indigenza – spiega l’arcivescovo Giuseppe Baturi – La Chiesa è provocata ad esprimere nel modo più ampio la sua missione di annuncio della Parola di Dio e di servizio alla carità. Sentiamo una responsabilità enorme di prossimità al Paese, mettendo in opera, come ha detto Papa Francesco, la ‘creatività dell’amore’”. “Un quarto dei fondi ha già raggiunto famiglie ed enti assistenziali. Li utilizzeremo tutti entro l’anno – spiega don Marco Orrù, sacerdote da 38 anni, economo diocesano e parroco di San Sebastiano, ad Elmas, 9.400 abitanti, in zona aeroporto – In alcune mense le richieste di aiuto alimentare sono il 100% in più. Emergono fragilità nascoste. Prima arrivavano persone sole, ora famiglie intere”. L’arcivescovo ha invitato tutti a donare: sacerdoti, parrocchie, fedeli. Tutti. “È tempo di ‘portare i pesi gli uni degli altri’ – ha chiesto Baturi citando san Paolo nella Lettera ai Galati (Gal 6,2) – La possibile sproporzione tra le nostre possibilità d’aiuto e la smisuratezza del bisogno non può scoraggiarci”. “È ora di vivere per gli altri più di prima. Possiamo rinnovare la mentalità nella gestione dei beni personali, aprendoci alla condivisione –aggiunge don Marco – Dagli aiuti in denaro ai gesti di vicinanza verso i più soli”. Intanto il Fondo si prepara a diventare strumento permanente di solidarietà della Chiesa cagliaritana.
   
NOVARA
“Senza la Caritas non so come avremmo fatto”
Le cose sembravano finalmente mettersi bene per Rigoberta, rifugiata 38enne salvadoregna: dopo 2 anni di lavoro come badante a Turbigo, nel Milanese, aveva realizzato lo scorso ottobre il sogno di far arrivare in Italia i figli di 16 e 10 anni. «Avevamo trovato casa a Novara, andavo dai miei anziani in treno e i ragazzi si stavano inserendo a scuola». Poi è arrivato il Covid e di colpo tutto rischiava di crollare. «Dall’8 marzo non sono più potuta andare a lavorare in Lombardia, la dispensa si è svuotata, i risparmi sono finiti. Nessuno voleva aiutarci. La Caritas ci ha salvato: non è stato solo l’aiuto materiale che abbiamo ricevuto con le borse alimentari, ma il sollievo di sapere che non eravamo più soli». Rigoberta è una delle 450 mila persone che nel 2020 si sono rivolte per la prima volta alla Caritas, secondo l’ultimo monitoraggio nazionale, il 95% delle quali a causa della perdita delle fonti di reddito: solo nella diocesi di Novara 400 famiglie si sono aggiunte alle 900 già assistite. Tra loro quella di Antonio, 44 anni, muratore, italiano come il 61,4% dei “nuovi poveri” creati dal Covid: «Con i cantieri fermi, ero a casa con mia moglie e tre figli: senza la Caritas non so come avremmo fatto». Oltre ai 250mila euro tratti dal fondo straordinario per il Covid stanziato dalla Cei con l’8xmille, la Caritas diocesana di Novara ha messo a disposizione dei piccoli negozi altri 10mila euro con il progetto #Ripartireinsieme: «Dopo aver sostenuto l’emergenza – spiega il direttore della Caritas diocesana di Novara, don Giorgio Borroni – è tempo di sostenere il lavoro e tornare a costruire il Welfare generativo, non assistenziale, promosso dalla Chiesa italiana per aiutare sia chi è in difficoltà sia le piccole attività che stanno ripartendo». M.B.

“Ragazzi, non rinunciate all’università e al futuro”

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di MARY VILLALOBOS foto AGENZIA ROMANO SICILIANI

 

La formazione accademica della generazione Covid19 è a rischio. Uno studio dell’Università Federico II di Napoli a maggio scorso ha rilevato che in Italia almeno 10 mila giovani (due terzi nel sud) potrebbero rinunciare ad iscriversi all’università quest’autunno perché la situazione economica delle famiglie è scossa dalla pandemia. È a repentaglio il loro futuro, oltre che le prospettive di sviluppo del nostro Paese, già ora fanalino di coda Ue per numero di laureati. Ancora troppo pochi per una democrazia tecnologicamente avanzata.

Davanti a quest’emergenza educativa, l’Università Cattolica del Sacro Cuore ha fatto la prima mossa: con l’Istituto Giuseppe Toniolo, suo ente fondatore, ed Educatt (la fondazione per il diritto allo studio dell’ateneo) ha bandito on line 100 borse, più 100 premi di studio in base al merito.
 La partecipazione è gratuita, senza distinzioni. A ciascun borsista 2.000 euro, rinnovabili negli anni, 3 mila per chi alloggerà nel campus. Fondi che si aggiungono alle 3 mila borse di studio annue Educatt per reddito e merito. “È tempo di attenzione e condivisione.
Non è carità intellettuale, avrebbe detto Papa san Paolo VI, né solo un contributo economico, ma l’inizio di un percorso di umanesimo integrale”, chiarisce don Giorgio Begni, dell’Istituto Toniolo e assistente pastorale all’Università Cattolica.
Con un’economia che tarderà a riprendersi, il bando verrà ripetuto? “Penso proprio di sì. La situazione è occasione, dice il nostro arcivescovo Mario Delpini. I tempi non sono facili, ma reagiamo con creatività e dedizione verso gli studenti”. Da tenere d’occhio dunque nei prossimi semestri il sito borsepermeritouc.it.
Don Giorgio, varesino, classe 56, era indeciso se diventare medico o insegnante: “poi scoprii che stare dalla parte del Vangelo significa indovinare la vita”, dice.
Non poté contare su speciali risorse negli anni del seminario: “sono stati tanti i ‘grazie’ sperimentati lungo il mio percorso sacerdotale. Oggi vanno ai fedeli che donano l’Offerta per il nostro sostentamento. Raggiungendo anche me e la missione di traghettare gli studenti verso il futuro”.

 


“Qui i bambini con l’asma tornano a respirare”

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di SABINA LEONETTI foto GIORGIO BOATO/AGENZIA ROMANO SICILIANI/CREATIVE COMMONS

 

Arrivano ‘senza fiato’ da tutta Italia, dalla pianura Padana, dalla Terra dei fuochi e da Taranto. Sono i ‘bambini e ragazzi di Misurina’ affetti da asma e patologie respiratorie, anche gravi. Per cause genetiche e ambientali la loro infanzia è frenata: sono spesso assenti a scuola, talora hanno smesso di giocare con i coetanei o vivono con l’ossigeno accanto. I loro genitori conoscono le notti interminabili e le corse in pronto soccorso per le crisi respiratorie. I bambini asmatici sono raddoppiati dal 1970 ad oggi (dal 7 all’attuale 15%, secondo il ministero della Salute) a causa del riscaldamento globale e delle polveri sottili, con molti casi non trattati. Perché – segnalano diverse ricerche – in Italia respiriamo oggi l’aria più inquinata d’Europa. Per loro sul lago dolomitico di Misurina (Belluno), a 1.756 metri, dal 1949 c’è un’opera della Chiesa che è un’eccellenza europea per ricerca, diagnosi e cura delle malattie respiratorie degli under 18: l’istituto ‘Pio XII’. Convenzionato con il sistema sanitario nazionale, 150 posti letto. Fa capo all’opera ‘San Bernardo degli Uberti’ della diocesi di Parma. Nelle stanze affacciate sull’azzurro delle Dolomiti migliaia di storie vissute di medici e di simposi internazionali, di famiglie indirizzate da altri ospedali o dal passaparola. Soprattutto storie di piccoli curati in questo microclima unico in Europa: l’altitudine, gli effetti del lago, il vento asciutto che soffia dal monte Cristallo, zero inquinamento e allergeni. Un mix tuttora indagato dagli pneumologi, che è parte della terapia. Tanti che a Misurina hanno trovato cure e una seconda casa lo raccontano su un blog (amici-misurina.org) a distanza di anni: come Andrea, asmatico grave, che dopo un biennio di terapie salì a piedi in escursione con le ciaspole sulle Tre Cime di Lavaredo con gli altri ragazzi. Alessia dopo due settimane, un gradino dopo l’altro, fece le scale, primi passi verso una vita quasi normale. Infanzie tornate leggere, in mezzo ai coetanei, con meno farmaci, libere di correre. Purtroppo per iter farraginosi, un calo di contributi ed invii di pazienti, il centro rischia la chiusura il prossimo 31 dicembre. In tanti sono intervenuti per salvaguardarlo: medici, famiglie, la diocesi di Parma, i media, fino al Segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin.

 

“Misurina è una realtà terapeutica all’avanguardia, unica in Italia, è una perla  a disposizione di tutti  – spiega don Luciano Genovesi, già presidente dell’Opera diocesana di Parma – Abbiamo un servizio di accoglienza per le fasce più deboli e sosteniamo i soggiorni dei meno abbienti. Anche per questo speriamo di scongiurarne la chiusura, in rete con alcuni dei migliori poli pediatrici nazionali, il Gemelli e il Bambin Gesù di Roma, il Gaslini di Genova, il Meyer di Firenze. Affianchiamo la sanità pubblica con questo laboratorio d’alta quota, anche per più soggiorni l’anno”. “È presidio per la salute e memoria di storia sanitaria da preservare – evidenzia il vescovo di Parma mons. Enrico Solmi –  Allena a vivere bene e dà occupazione per l’indotto sul territorio. Davvero merita di essere rilanciato”. “Abbiamo collaborazioni costruite nel tempo che vanno dalle università di Verona e Ferrara alla Federazione italiana medici pediatri e a FederAsma – specifica Elena Cardinali, direttore generale – La medicina di montagna qui ha ridato vigore e gioia di vivere a tanti bambini, a cui abbiamo assicurato anche istruzione scolastica sul posto”. ‘Risultati indiscussi’ dicono genitori, pazienti e medici dell’associazione Respiriamo insieme (nata nel 2014 col nome Respirare Misurina), mobilitati perché il ‘Pio XII’ viva. Lo spiega Alessandra, sarda di origine, residente a Bergamo, rimasta vedova mentre era incinta del piccolo Francesco, nato con una forma grave di asma: “oggi ha 12 anni e dopo diversi soggiorni a Misurina è rinato”.