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Non ho nessuno che mi immerga. Universalità e diritto alle cure.

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Come prendersi cura di qualcuno è un tema che da sempre affascina l’umanità. Abbiamo iniziato dalla semplicità di piccoli gesti di aiuto per poi definire nel tempo forme di cura organizzata sempre più evolute. La sapienza del cristianesimo e il senso di una solidarietà diffuse hanno generato l’ospedale insieme ad altre strutture specializzate. Nel tempo, tutti i paesi nel mondo si sono dotati di un sistema più o meno ampio di assistenza.

In Italia, la cura delle persone affette da problemi di salute ha un carattere universalistico. Chiunque risieda, anche temporaneamente, sul nostro territorio ha diritto ad essere curato. Oggi, questo sistema presenta punti di crescente criticità. Cosa pensare? Che fare? Quali correttivi applicare? Quale contributo può dare la comunità cristiana?
Sono alcune delle domande che questo convegno nazionale vuole affrontare.

Per le modalità di iscrizione e il Programma visita il Sito web https://www.convegnosalute.it/

 


Domande di salute, l’ascolto che serve

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Forse neppure il Ministero della Salute riesce a riunire quasi tutte le professioni sanitarie a discutere insieme sul senso del proprio servizio, com’è invece riuscito ieri al Convegno nazionale di Pastorale della Salute, organizzato dall’Ufficio Cei, che si chiude oggi a Bari. Sei rappresentanti di altrettante sigle tra ordini e categorie, per un totale di oltre un milione e 200mila operatori, al centro il segretario generale della Cei monsignor Giuseppe Baturi ad ascoltarli, prendere appunti e a proporre, al termine di due ore serrate di considerazioni sulla sanità e la salute, il punto di vista della Chiesa italiana. Che anche visivamente, nel palco davanti a 200 delegati da decine di diocesi, si pone come interlocutrice autorevole e credibile perché mostra di voler intendere bene la voce di chi si spende nella sua stessa missione “sanante”, quand’è davvero umana. Alle domande del mondo della salute la Chiesa, spiega Baturi, «propone un Sofferente da guardare, Gesù Cristo, che è insieme medico e medicina, e aiuta a vivere la malattia e la stessa morte in un orizzonte di senso. Non basta offrire tante “buone opere”: nella sofferenza esplodono le grandi domande, in gioco è chi è l’uomo, e chi è Dio, nella fondatezza di una speranza sul nostro destino». Offrendo il modello del Samaritano (“anche tu fa lo stesso”), il Signore indica di aver cura della persona bisognosa di tutto: per questo «la società si fonda sulla sua capacità di farsi carico dei più fragili, e così la stessa Chiesa». Quattro le strade: «Saper ascoltare l’uomo sofferente e aiutare la sua famiglia a prendersi cura di lui; farsi “malati con i malati” coltivando la relazione, sul modello di Gesù che sanava sempre dentro un incontro personale; portare a sistema le buone pratiche e le reti solidali, perché la differenza la fanno le persone che sanno andare oltre il loro dovere, come ci ha ricordato la pandemia; nella comunità cristiana non delegare la cura ad altri, perché nella salute, che riguarda tutti, è coinvolta profondamente tutta la vita».

Non è, questa, una parola estranea ai tecnicismi sanitari: perché se c’è un punto sul quale convergono le analisi delle espressioni professionali del mondo sanitario è proprio la domanda incombente su come gestire l’intreccio sempre più complesso tra crescenti attese di salute e benessere, che premono in maniera formidabile sui persone e strutture, tecnologie mediche sempre più sofisticate e costose, ma salva-vita, e sostenibilità di un Sistema sanitario tanto universale quanto in crescente affanno. Che senso ha oggi la relazione con la persona e il contesto del malato dentro questo scenario? Più volte sono stati gli stessi interlocutori ieri a Bari – moderati da Gianni Cervellera e Monica Di Loreto, che su Tv2000 conduce Il mio medico – a chiederlo apertamente alla Chiesa, che in queste giornate si interroga sul tema sinodale dell’ascolto. Di «professione in crisi» parla senza mezzi termini il presidente della Federazione degli Ordini dei medici Filippo Anelli. «Ci siamo illusi che la tecnologia risolva i problemi, prescindendo dal disagio umano che la malattia genera. È decisivo ricordare che la comunicazione col paziente è tempo di cura, come dice oggi anche la legge». Se sa dar vita a questo, il medico «può essere, come deve, il presidio di diritti costituzionali, come la vita, l’uguaglianza, l’ambiente salubre, oltre alla salute». «Non possiamo assicurare tutte le prestazioni a tutti i cittadini se prosegue il declino demografico – ha chiarito un preoccupato Giovanni Migliore, presidente Fiaso (dirigenti di aziende sanitarie) –. C’è la concreta prospettiva di un impoverimento di salute.

Vanno rafforzate le reti di prossimità sul territorio mentre si mette sotto controllo la domanda ». La questione della sostenibilità del sistema è acutamente avvertita: «L’equo accesso alle cure non è più garantito, anche per effetto della forte aziendalizzazione della sanità – è l’allarme di Diego Catania in rappresentanza delle 18 professioni tecniche sanitarie (155mila addetti) –. Ma non possiamo accettare la selezione della salute in base al reddito, noi dobbiamo essere un baluardo». C’è da chiedersi comunque «quali sono le reali necessità di cura oggi – si è domandato Giancarlo Cicolini per conto della Fnopi (infermieri) –, riorganizzando i modelli assistenziali ma anche intercettando i bisogni assistenziali ancora inespressi». Tutto passa sempre da due gesti: «La comprensione del bisogno e il protendersi verso l’altro – è la riflessione di Piero Ferrante, per conto di 70mila fisioterapisti –. Va rimessa la persona, con la sua corporeità, al centro di un’azione di cura che punta sulla massima prossimità». Che si debba «investire in prevenzione» è infine la convinzione degli psicologi, che con Giuseppe Luigi Palma spingono per «investimenti non solo in strutture ma per individuare tempestivamente le cure adeguate ed evitare sprechi successivi».

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A scuola dalla “cultura degli hospice”

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di ENRICO NEGROTTI

C’è tanto ancora da fare. È forse la frase più ricorrente alla sessione tematica dedicata alle cure palliative «Il dolore che non ha voce. Sulla soglia, in ascolto dei bisogni dei sofferenti», svoltasi presso la Fondazione Opera Santi Medici di Bitonto (Bari) nell’ambito del 24° Convegno nazionale di Pastorale della Salute, organizzato dall’Ufficio Cei diretto da don Massimo Angelelli. Il quale ha ricordato che «il porsi in ascolto dei sofferenti è proprio la cifra distintiva di un hospice cattolico», come sottolineava già il primo documento elaborato dal Tavolo di lavoro degli hospice cattolici e di ispirazione cristiana Una presenza per una speranza affidabile. «Negli hospice – ha puntualizzato Carla Dotti, direttore sanitario della Fondazione Istituto Sacra Famiglia (hospice di Inzago) – è fondamentale che i clinici e gli infermieri sappiano ascoltare anche il silenzio, che può aumentare più la soglia si avvicina».

Una panoramica scientifica sulle cure palliative (Cp) è stata offerta dall’oncologo ed ematologo Marco Maltoni, che a Forlì è direttore della Unità di Cure palliative del Dipartimento oncologico della Ausl Romagna, ricordando che «i bisogni di cure palliative non sono solo di fine vita. L’Atlante globale delle cure palliative dell’Oms segnala che il 54,2% dei pazienti ne ha bisogno prima». Ma il punto cruciale riguarda il tipo: «Vogliamo che nei palliativisti italiani resti la fedeltà all’ispirazione dell’infermiera britannica Cicely Saunders – puntualizza Maltoni –, fondatrice delle moderne cure palliative, che aveva ben chiaro che per una sofferenza totale era necessaria una risposta globale: prendere in carico la persona e la sua famiglia, con continuità nel tempo e nello spazio». Le cure palliative «rispettando la naturalità della vita e della morte, e la proporzionalità degli interventi, senza accanimento né abbandono», hanno lo scopo di «garantire la miglior qualità della vita possibile, con un rapporto umano significativo: ricordando che essere al centro di un’attenzione affezionata e competente è sempre possibile». Infine Maltoni ha messo in guardia da una possibile legge che “regolamenti” l’eutanasia, a partire dall’esperienza dei Paesi che la hanno già adottata: « Le cosiddette salvaguardie cadono presto, e il valore “pedagogico” della legge finisce con l’incentivarne l’utilizzo. In Olanda l’eutanasia sta raggiungendo il 6% delle morti».

Le cure palliative sono state «una conquista di civiltà – ha sottolineato monsgnor Francesco Savino, vescovo di Cassano all’Jonio e vicepresidente della Cei – ma è ora di aprire un ambito di ricerca». E ha fornito quattro indicazioni sulle modalità dell’accompagnamento: « Adottare l’etica del viandante, con il medico che si siede accando al malato in un gesto di prossimità; fare verità senza congiure del silenzio; ricucire le ferite, che è il più grande bisogno di un malato in un hospice; e infine dare prospettiva di speranza: non dire mai non c’è più nulla da fare perché c’è sempre tanto da fare». Ulteriori spunti di riflessione sono venuti dalla tavola rotonda moderata da Michele Montinaro, presidente della sezione di Bari- Bitonto dell’Associazione medici cattolici (Amci). Dalla necessità dello «stare accanto al malato per ascoltarne il dolore globale », Tommaso Fusaro (responsabile dell’hospice Marena di Bitonto) ha auspicato la «necessità di implementare le competenze che non vengono dal percorso accademico».

Filomena Puntillo (Rianimazione e Terapia del dolore Università di Bari) ha riconosciuto che «l’ospedale non è il posto migliore per le cure palliative perché si è legati a una visione di cura attiva. Positivo il lavoro a gruppi, come nelle breast unit dove l’approccio multidisciplinare è simile a quello delle cure palliative. Anche Domenico Milella (responsabile Rianimazione, Ospedale San Paolo di Bari) ha rimarcato che «l’insegnamento universitario punta a curare la malattia e non ad accompagnare il paziente. E non siamo preparati ad affrontare il dolore dei parenti». Dalla sua esperienza di infermiere prima in hospice e ora in terapia intensiva, Luca Laera (Ospedale San Paolo di Bari) ha tratto la conferma dell’importanza di stare accanto al malato, tipica dell’hospice. Don Antonio Stizzi (Ufficio di Pastorale della Salute, Arcidiocesi di Bari-Bitonto) ha ricordato che «occorre saper leggere il dolore, dietro c’è sempre un bisogno, a volte spirituale». Mentre Gaetano Bufano, consigliere regionale Federazione italiana medici di medicina generale (Fimmg), ha ricordato che «manca un anello di congiunzione tra ospedale e territorio, che assicuri una dimissione protetta: spesso la paura dei parenti è di non sapere come assistere a casa il proprio congiunto». Infine il vescovo Savino ha esortato gli operatori di hospice e di cure palliative a essere «sentinelle dell’I care e della responsabilità nei luoghi di cura».

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Dall’odore al profumo, Il senso ritrovato. Per un superamento dello scarto

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L’olfatto non è un tema facile da trattare a livello di cura pastorale, eppure abbiamo scoperto che l’odore è uno dei più importanti segni che condizionano la nostra relazione. I contributi qui raccolti manifestano una grande ricchezza di percorsi di ricerca e approfondimento; sono segno di un cammino che si va svolgendo con una sua logica pluriennale che vuole rendere ragione dell’attenzione all’umano tanto in ambito medico-sanitario come pure nei cammini pastorali delle nostre Chiese in Italia. Amore, gratuità, condivisione, impegno costante: sono segni che profumano la vita di chi opera in sanità e in pastorale della salute. Così si potrà ove possibile guarire, ma comunque curare – secondo il mandato del Vangelo –, le nostre e le altrui ferite. Sempre con il profumo dell’amore.

Disponibile online


XXIV Convegno Nazionale di pastorale della salute – Bari, 11-18 maggio 2023

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Stare all’ascolto richiede il coinvolgimento di tutti i sensi: se si guarda l’interlocutore si ha una condizione più favorevole; se lo si tocca passa anche il calore, il ritmo, l’odore; infine, si può gustare ciò che l’altro dice. Il doppio canale di ricezione del nostro corpo ci permette di ascoltare in stereofonia voci, suoni, rumori cogliendo le più piccole sfumature di tono.

Corpo, mente, cuore, spirito tutto concorre a favorire un pieno ascolto.

Da questo breve inciso nasce l’idea di collocare l’udito come ultima tappa di un percorso formativo traghettato attraverso i cinque sensi: un senso che tutti li contempla.

Per altro, niente come l’ascolto ha la forza di garantire, veicolare e migliorare qualsiasi processo terapeutico.

A livello pastorale, poi, l’ascolto è l’inizio della fede, generatore di speranza e promotore di carità.

Nel convegno di pastorale della salute organizzato dall’Ufficio Nazionale per la pastorale della salute della CEI a Bari dal 15 al 18 maggio 2023 ascolteremo il lamento, le ferite e le domande che affiorano nel mondo della salute e proveremo a tracciare criteri per potenziali risposte agli interrogativi che emergono da un ascolto fecondo.

Nel titolo risuona l’eco di espressioni bibliche che pongono Dio in ascolto del suo popolo e su quel modello gli operatori di pastorale della salute si mettono in ascolto del popolo a loro affidato: i sofferenti.

Per ogni info visita il sito dedicato: www.convegnosalute.it 


XXIII Convegno Nazionale di pastorale della salute

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La ricerca costante del bene, della cura migliore, della salvezza di tutti sono al centro di ogni azione pastorale nel mondo della salute. L’obiettivo di prendersi cura di ogni persona si scontra tuttavia con la realtà di malati, sofferenti, poveri ed emarginati che non sempre suscitano immediatamente il desiderio di avvicinarsi e di sostare accanto a loro. Se vince la paura, o peggio l’indifferenza, si genera quello scarto che rende diseguale la società.

Il superamento di questo limite viene dal miglioramento delle capacità e competenze umane, relazionali e professionali e ancor di più è garantita dalla grazia e dalla forza che vengono dallo Spirito.

Il XXIII Convegno Nazionale di Pastorale della Salute mette ha messo a tema la necessità del superamento dello scarto e lo ha fatto utilizzando l’immagine dell’olfatto, il quarto dei sensi presi in considerazione negli ultimi anni, nella prospettiva di generare quel passaggio dall’odore sgradevole della malattia al profumo che emanano le buone azioni di cura.

Rivedi qui tutte le sessioni del Convegno nazionale 2022>


Oltre la fatica con il profumo dell’incontro

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di Massimo Angelelli

C’è una fatica reale in quello che stiamo vivendo, la ‘ripartenza’ dopo oltre due anni fermi e chiusi nei nostri ambienti. Un segno è il Convegno nazionale di Pastorale della salute che stiamo vivendo a Cagliari, in presenza, come non accadeva da tre anni. Ho letto in alcuni volti la fatica: abbiamo ancora addosso stanchezza da elaborare e qualche pensiero da sciogliere. Ripartire non è così immediato. Me ne sono reso conto ascoltando tante persone della grande rete di pastorale della salute italiana qui rappresentata. Gli ultimi sono stati mesi di timori, di perdite e sofferenza, ma anche di profonda esigenza di tornare a vivere.

Siamo vivi e vogliamo vivere, questa è la chiave della nostra ripartenza: non vogliamo sopravvivere, o schivare la morte, non vogliamo difenderci o aver paura di vivere, né di incontrare e abbracciare l’altro. Vogliamo riscoprire la bellezza delle relazioni. La Chiesa sente l’esigenza di testimoniare. Ma cosa? Abbiamo bisogno di essere rassicurati perché il nemico invisibile del virus ci ha impauriti e piagati. Abbiamo bisogno di essere consolati, anzitutto da Cristo che ha disteso le braccia sulla Croce per poter meglio abbracciare tutta l’umanità. C’è anche bisogno di essere rassicurati e abbracciati dai nostri fratelli e sorelle, perché nell’incontro con l’altro ritrovo me stesso, con i miei bisogni e ricchezze, riscoprendo la bellezza del dono, della gratuità, indice di qualità della relazione, parametro del nostro stare insieme, in quanto capacità di dare all’altro liberamente, così come di ricevere, in umiltà. Tutti possiamo e dobbiamo donare qualcosa, soldi o capacità, tempo o ascolto: donando possiamo guadagnare lo status di ‘persona in relazione’.

E poi, ho bisogno di sentirmi abbracciato da me stesso ricomponendo quella totalità unificata che è l’uomo stesso e che oggi è minacciata da distrazione, disgregazione, rapidità, condizionamenti esterni. Riconciliandomi con me stesso ritrovo la forza del vivere, che è il dono dell’amore connesso alla vita.

Nel nostro stare insieme ritroviamo il senso del cammino come pastorale della salute. Il senso dell’olfatto – proposto nel titolo del Convegno «Dall’odore al profumo. Per un superamento dello scarto» – non era facile da trattare. Ma abbiamo scoperto che l’odore è uno dei più importanti segni che condizionano la nostra relazione: un cattivo odore allontana. Rieduchiamo allora i nostri sensi per entrare meglio in relazione e non ‘scartare’. Perché la persona è molto di più.

Direttore Ufficio Cei per la Pastorale della Salute

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Odore di «scarto», ci vuole una cura

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di Francesco Ognibene
inviato a Cagliari

È un attimo: ci si credeva al sicuro, e arriva l’apnea. Una malattia, il lavoro che se ne va, un figlio che non trova la strada, un genitore anziano non più autonomo. E da garantiti eccoci emarginati, dapprima in modo impercettibile, poi – se le cause si assommano – gettati nell’emarginazione, ‘sfortunati’, infrequentabili, come si emanasse un cattivo odore. Scartati. Può succedere, è successo nei due anni di pandemia con l’impeto di un tornado che si è abbattuto su una società che si pensava solida e invece recava in sé lacerazioni pericolose. La Chiesa italiana ha acceso il radar anche su questa nuova area di disagio sociale – pandemia, crisi sistemica, ora guerra – con il crescere degli italiani rimasti senza rete sotto l’effetto di un impoverimento che da economico che era è diventato anche sanitario. A proporne un’immagine molto realistica è il Convegno nazionale di Pastorale della Salute che sino a oggi a Cagliari vede – finalmente in presenza – i delegati delle diocesi invitati dall’Ufficio Cei. Nel suo percorso tra i sensi – quarto anno del viaggio in una corporeità da rileggere in chiave cristiana – l’organismo diretto da don Massimo Angelelli sta proponendo di ‘annusare’ la nostra umanità provata da Covid e scenari bellici: e con l’evocativo tema «Dall’odore al profumo, il senso ritrovato. Per un superamento dello scarto» invita a chiamare col loro nome le forme di selezione di cui siamo testimoni. Per capirle e sanarle.

Quel che i dati ci restituiscono è una realtà sociale in cui le famiglie povere sono raddoppiate in 10 anni con un balzo nella tempesta pandemica, come spiega la responsabile Welfare e Salute del Censis, Ketty Vaccaro: «Diventare ‘scarto’ può capitare a tutti, la linea di demarcazione si è fatta labile. Le vulnerabilità hanno un fattore incrementale, si sommano e si combinano producendo effetti devastanti in presenza di cause di fragilità come oggi sono la giovane età, la solitudine, la presenza di figli piccoli, la numerosità della famiglia, la collocazione geografica, l’area urbana degradata, un disagio psichico, una disabilità, la condizione di migrante…». La forbice dell’esclusione sociale si fa sempre più larga, talora anche in presenza di un’occupazione. E il degrado della salute è la prima spia che si accende. Il presidente della Caritas e arcivescovo di Gorizia Carlo Maria Redaelli, a capo della Commissione episcopale che non a caso unisce carità e salute, conosce bene la situazione grazie ai sensori sul territorio: oggi la malattia può essere il frutto e insieme la causa della povertà, con la forma di scarto particolarmente odiosa che è la crescente difficoltà di troppi italiani nell’accesso alle cure in quello che è pur sempre uno dei migliori Servizi sanitari del mondo. Lo scenario si fa ancora più complesso quando irrompe il disagio psichico, che in una condizione così incerta esprime quella «povertà vitale» osservata da Alberto Siracusano, ordinario di Psichiatria a Tor Vergata. La salute mentale precaria e la conseguente «fragilità», effetto di «reti sociali, affettive, familiari e amicali logorate», comporta «il rischio dello spreco di chi ne è vittima. Non è più chiaro cosa sia un progetto di vita, prevale l’idea di un investimento produttivo che deve creare ricchezza rispetto alla qualità di vita come benessere psicologico». A un nuovo paradigma di «ricchezza vitale » guarda così Siracusano come – da vescovo e teologo – monsignor Francesco Savino, alla guida della diocesi calabrese di Cassano all’Jonio, quando pensa a una «Chiesa chiamata a promuovere luoghi di accoglienza e ospitalità» nei quali si testimoni «la cura dell’altro e delle relazioni come esercizio concreto di misericordia e fraternità ».

Non sono nobili sogni ma necessità: ormai dovrebbe essere chiaro che «è crollata una finta costruzione di sicurezza» insieme all’illusione di «uscire migliori dal Covid: perché non sembra che abbiamo imparato a liberarci dal superfluo, dalla virtualità, dal delirio dell’immagine», amara osservazione di una testimone del tempo come Giovanna Botteri, inviata Rai su tanti fronti globali, inclusa la Cina del virus, che al convegno Cei ha portato – in stile sinodale – una voce ‘altra’ e insieme totalmente sintonica sugli approdi di senso delle crisi attuali: come la necessità davanti alla guerra di «usare parole che non scavino fossati ma creino un terreno di incontro». Una chiave di significato e di speranza – esplorata anche dal cappellano del Gemelli padre Andrea Stefanie dal teologo don Maurizio Gronchi– scelta dall’arcivescovo di Cagliari e vicepresidente Cei Giuseppe Baturi, che nota come «dal mondo laico ci viene ricordato che oggi il tema fondamentale è quello del vivere», un incoraggiamento a «convocare al nostro tavolo le domande più profonde sull’uomo» avvertendo la «responsabilità di indicare cosa ci costruisce come popolo». Perché «dentro le crisi siamo sempre stati capaci come cattolici di costruire il futuro su grandi visioni, e in dialogo con tutti». Il momento è indubbiamente questo.

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