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Non ho nessuno che mi immerga. Universalità e diritto alle cure.

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Come prendersi cura di qualcuno è un tema che da sempre affascina l’umanità. Abbiamo iniziato dalla semplicità di piccoli gesti di aiuto per poi definire nel tempo forme di cura organizzata sempre più evolute. La sapienza del cristianesimo e il senso di una solidarietà diffuse hanno generato l’ospedale insieme ad altre strutture specializzate. Nel tempo, tutti i paesi nel mondo si sono dotati di un sistema più o meno ampio di assistenza.

In Italia, la cura delle persone affette da problemi di salute ha un carattere universalistico. Chiunque risieda, anche temporaneamente, sul nostro territorio ha diritto ad essere curato. Oggi, questo sistema presenta punti di crescente criticità. Cosa pensare? Che fare? Quali correttivi applicare? Quale contributo può dare la comunità cristiana?
Sono alcune delle domande che questo convegno nazionale vuole affrontare.

Per le modalità di iscrizione e il Programma visita il Sito web https://www.convegnosalute.it/

 


L’allarme. Per l’Aris le nuove tariffe sanitarie sono insostenibili

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Si avvicina l’entrata in vigore del nuovo Tariffario per le prestazioni specialistiche e ambulatoriali, prevista per il prossimo 1° aprile, e il mondo della sanità privata accreditata è in fermento. Infatti se da un lato i nuovi Livelli essenziali di assistenza (Lea) approvati nel 2017 hanno introdotto nuove prestazioni a disposizione dei pazienti nel Servizio sanitario nazionale (Ssn), frutto di avanzamenti tecnico-scientifici, dall’altro la rimodulazione delle tariffe ha portato a una riduzione dei rimborsi riconosciuti per molte prestazioni. Che rischiano di mettere in crisi molte strutture, specialmente quelle non profit.

Di qui la protesta di diversi attori della sanità privata, in particolare da parte di coloro che, come l’Associazione religiosa istituti socio-sanitari (Aris), sono accreditati nel servizio sanitario pubblico, e hanno quindi gli stessi doveri, ma non possono contare sugli stessi finanziamenti. L’ultimo allarme è stato lanciato dal presidente dell’Aris, il camilliano padre Virginio Bebber, che intravvede grandi rischi per i pazienti dall’introduzione del nuovo Nomenclatore tariffario: «Le liste di attesa si raddoppieranno».

Per questo domani è in programma un incontro di una rappresentanza dell’Aris con il ministro della Salute Orazio Schillaci con l’intento di illustrare le ragioni della forti preoccupazioni della sanità non profit di area cattolica, che con le sue 262 strutture (con 40mila posti letto e 100mila dipendenti), garantisce tra i 10 e 12 milioni di prestazioni ambulatoriali l’anno, offrendo un apporto insostituibile al sistema sanitario pubblico.

«Le tariffe – spiega Bebber – ovvero quanto viene riconosciuto alle strutture che erogano gli esami, sono assolutamente inadeguate, irrealistiche e porteranno in futuro enormi problemi. Un esempio per capire meglio: le visite specialistiche (cardiologiche, ortopediche, neurologiche, ecc.) hanno una tariffa di 22 euro, cifra che è insufficiente a coprire i costi del medico specialista, del personale infermieristico, del servizio di prenotazione, delle utenze e delle pulizie. Ogni visita genera una perdita almeno di 25 euro. Sono molte le prestazioni che hanno tariffe che non coprono neanche i costi diretti di produzione, anzi, rispetto al tariffario precedente, si ha una riduzione complessiva del 30% (facendo il calcolo su tutte le prestazioni). In sintesi: è un sistema non sostenibile».

Il rischio, quindi, secondo Aris, è che l’abbassamento medio dei rimborsi – combinato con il tetto di spesa stabilito per le strutture sanitarie non profit – conduca a una riduzione del numero di prestazioni effettuate, e quindi a un allungamento delle liste d’attesa. Un altro possibile risvolto è che le Regioni con un bilancio più solido possano garantire meglio i rimborsi, a differenza di quelle in difficoltà finanziaria (o in piano di rientro), generando così diseguaglianze nell’erogazione dei Lea.

A essere preoccupati per il nuovo Nomenclatore tariffario sono anche i rappresentanti di altre categorie della sanità privata: ospedali for profit (Aiop), ambulatori, piccole industrie, che paventano possibili risvolti di natura occupazionale, se i tagli metteranno in difficoltà le imprese.

Il mese scorso, il ministro della Salute, Orazio Schillaci, precisando che il lavoro con le Regioni sul nuovo tariffario che risale al 2017 è ancora in corso, aveva ammesso: «C’è stato ovviamente un abbassamento del prezzo di alcune prestazioni, penso alla medicina del laboratorio o ad alcune prestazioni specialistiche».

Ma aveva aggiunto che «ci sono dei fondi, soprattutto dall’anno prossimo, che possono essere utilizzati sia per introdurre le prestazioni, sia per aumentare il rimborso per alcune di queste che sono state limate». Concludendo con l’invito a collaborare: «Siamo al tavolo con tutti i rappresentanti, anche soprattutto della medicina del laboratorio, per trovare delle soluzioni condivise, sempre nel primario interesse dei pazienti».

Tuttavia non aveva prodotto risultati, un mese fa, un incontro al ministero della Salute con i rappresentanti dell’Unione ambulatori e poliambulatori (Uap) – che comprende Confapi Salute, università e ricerca, Anisap, Federlab Italia, Associazione imprese sanitarie indipendenti (Aisi), Unindustria, Fenaspat e Federlazio – teso a chiedere un rinvio dell’entrata in vigore delle nuove tariffe.

E il prossimo 20 marzo è in programma a Roma un altro incontro delle associazioni di categoria rappresentative degli ambulatori e poliambulatori privati per valutare i possibili esiti di un tariffario che, secondo Uap, «bloccherà l’abbattimento delle liste d’attesa con una drammatica ripercussione sui 36mila posti di lavoro».

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Ragazzi, salute mentale in crisi.

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IL TEMA

Il punto annuale sul benessere psichico degli italiani nel convegno dell’Ufficio Cei per la Pastorale della salute con psichiatri e studiosi Cresce l’allarme per patologie che insidiano le nuove generazioni

di PINO CIOCIOLA

Il futuro non sembra di grande compagnia. Anzi, mostra piazze quasi solo virtuali e solitudini reali, condite da una discreta tristezza e qualche senso di vuoto. Mentre il presente neppure mostra un barlume d’inversione di rotta e tendenze. Non c’è insomma da stare granché allegri, specie pensando ai più giovani, ma tocca muoversi, com’è stato spiegato a “Le grandi solitudini. La Chiesa italiana e la salute mentale”, settima edizione del convegno promosso dall’Ufficio nazionale per la Pastorale della salute della Cei, in collaborazione con l’Associazione italiana psicologi e psichiatri cattolici e l’associazione “In punta di piedi”, con una ventina di relatori.

Pandemia della solitudine.

Diversi elementi «ci fanno dire che oggi viviamo una “pandemia della solitudine”, e si direbbe che il contesto sociale occidentale attuale non aiuta la relazione», dice in un videosaluto inviato al convegno monsignor Giuseppe Baturi, segretario generale della Cei. Ma «l’incontro, la relazione, può nascere solo quando riconosco l’altro, anche nelle sue fragilità, anche quando è vulnerato, ha subito qualche ferita, lo riconosco come persona, come un “tu” che possiede quell’originario valore per sé stesso. E mi prendo cura di lui».

Ritiro sociale. Punto, già sconsolante, di partenza, socialmente parlando: «Una percentuale di ragazzi tra l’11 e il 27% soffre di sentimenti di tristezza e vuoto, quando diventano consapevoli della scarsa quantità e qualità delle proprie relazioni sociali», percentuale che «sale al 40% se si considera l’età adulta», spiega Stefano Vicari, docente di Neuropsichiatria infantile alla Cattolica di Roma e responsabile dell’Unità operativa complessa Neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza all’Ospedale Bambino Gesù. Occhio poi al cosiddetto “ritiro sociale” (sottrarsi alle opportunità d’interazione con i coetanei), visto che si stimano in questa condizione «120mila ragazzi ».

Vita da smartphone . Ancora Vicari: «Il 78,3% di bambini fra 11 e 13 anni utilizza internet tutti i giorni, soprattutto attraverso lo smartphone ». A proposito, «i bambini tra sei e dieci anni che utilizzano lo smartphone tutti i giorni sono passati dal 18,4% del 2018/19 al 30,2% del 2020/2021», cioè dopo la pandemia. Risultato? «Facile e veloce soddisfazione dei bisogni virtuali», «controllo sugli altri, sulle proprie emozioni e i propri comportamenti», «eccitazione da immagini, suoni e video durante la navigazione». Naturalmente con la “sindrome da disconnessione” scattano «ansia, tristezza e rabbia», annota Vicari. Così – conclude – «la dipendenza da strumenti elettronici è la piaga di questi anni». Con relativa e annessa solitudine.

Condizione patologica. Tanto più che c’è una bella differenza fra stare soli, restarci o finirci: «Se usiamo l’espressione “stare da soli” – annota l’Ufficio Cei per la Pastorale della salute, diretto da don Massimo Angelelli – possiamo pensare a un’opportunità per generare nuove energie, progetti, sviluppi. Se passiamo a “restare da soli” tratteggiamo uno scenario velato di tristezza, con la sensazione che si sia perduto qualcuno di prezioso. Ma quando nel nostro linguaggio entra la parola “solitudine” disegniamo un quadro malinconico che confina con – o addirittura entra in – una condizione patologica».

Dunque, «nato per la relazione, l’essere umano, si trova non poche volte in condizione di solitudine, al punto che la letteratura a più riprese lo descrive come un essere “solo” dalla nascita alla fine».

I “divorzi grigi”. Prendiamo la coppia che scoppia, altro giro di potenziali (e purtroppo non solo) solitudini. Un campanello ormai più che d’allarme sono i “ grey divorces” (divorzi grigi), i divorzi che avvengono oltre i cinquant’anni. E sono le donne – sottolinea Cinzia Niolu, medico, psicoterapeuta, psichiatra, dirigente della Uoc di Psichiatria della Fondazione Policlinico Tor Vergata – ad avere «una maggiore difficoltà a riprendersi emotivamente e psicologicamente».

Disabilità. Ancora, pensando alla solitudine delle famiglie con figli disabili, «nell’ultimo decennio il numero delle consulenze neuropsichiatriche al Dipartimento emergenza e accettazione del Bambino Gesù è aumentato undici volte», fa sapere Paolo Alfieri, dottore in Neuroscienze dello Sviluppo, Uoc di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza del Bambino Gesù di Roma. Intanto, nel mondo «più di un adolescente su sette tra 10 e 19 anni convive con un disturbo mentale diagnosticato» e «il suicidio è la seconda causa di morte tra 15 e 19 anni in Europa». Testimonianza della mamma di una ragazza disabile in cura al Bambino Gesù: « Invitare un familiare in casa a pranzo o per un semplice incontro è impensabile. Ancor più quando tutti si riuniscono», come a Natale o per un compleanno, che «per noi rimane un’utopia».

Operatori sanitari. La rassegna è lunga. La solitudine degli operatori sanitari, quando si manifesta, può essere «necessaria, voluta, patologica », spiega Alessandra Laudato, psichiatra, dirigente medico Asl Napoli 3 Sud: nel primo caso, perché «ci si ritrova soli col malato e protesi con lui verso un percorso di guarigione », quella voluta perché «spesso ci si organizza per categorie distinte e quasi contrapposte ». La peggiore è quella patologica, perché «aumentano gli obblighi lavorativi, ma diminuiscono le strutture e il personale» e perché «l’eccessiva burocrazia rallenta la pratica quotidiana sottraendo energie ed entusiasmo al ben operare». Così, ad esempio, magari subentrano «la sensazione di fallimento e la perdita dell’autostima», sentendosi «inariditi e demotivati».

Pericolo letale. Attenzione, infine: la solitudine patologica può arrivare fino a uccidere. «Numerose ricerche dimostrano che solitudine e isolamento innescano numerosi problemi al confine corpo-mente – aggiunge Laudato –, insonnia, alterazioni immunitarie, patologie cardiache, alimentari, algiche e ovviamente ansia, depressione, dipendenze da alcol e sostanze». Morale? «Alcuni esperti stimano che il rischio di morte prematura possa aumentare del 30%».

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Translarna, le associazioni chiedono il rinnovo dell’autorizzazione per il farmaco per la Distrofia di Duchenne

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Con una lettera alla Commissione Europea e all’EMA – European Medicines Agency, le associazioni UILDM – Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare, Parent Project aps e UNIAMO – Federazione Italiana Malattie Rare chiedono di rivedere la decisione relativa al farmaco “Translarna” (Ataluren) per la Distrofia Muscolare di Duchenne. Il Comitato per i medicinali per uso umano (CHMP) ha dato parere negativo al rinnovo dell’autorizzazione condizionale.

Tale decisione ha gettato nello sconforto centinaia di pazienti con questa patologia e le loro famiglie in tutta Europa che non potranno più beneficiare di un farmaco che per anni è stato l’unica opzione di trattamento per i pazienti con mutazione nonsense (nmDMD).

Le associazioni segnalano che «secondo la comunità scientifica, dopo anni di utilizzo, Translarna è un farmaco con un elevato profilo di sicurezza, facile da usare nei bambini per la modalità di somministrazione, che consente un rallentamento della progressione della patologia come ampiamente documentato nel registro STRIDE». Continua a leggere…

Leggi il Documento congiunto UNIAMO-UILDM-PARENT v3

 


Corso FC23.4 – Liberati dal senso di colpa

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Quarto webinar di formazione su «”Quei diciotto sotto la Torre di Siloe”. La responsabilità del male», dal titolo: Liberati dal senso di colpa. Il Corso sarà tenuto online, giovedì 21 marzo 2024 dalle ore 15,00 alle ore 16,30.

La partecipazione ai Corsi è gratuita ma è necessario iscriversi online. L´iscrizione viene fatta per l´intero Corso scelto e non per ogni singolo appuntamento. Il giorno della lezione verrà inviato via mail il link per accedere al canale YouTube.

Per informazioni contattare la Segreteria dell´Ufficio Nazionale per la pastorale della salute: tel. 06.66398.477 – salute@chiesacattolica.it

Relatore del corso: a cura di Gianni Cervellera – Dialogo con don Massimo Angelelli, Direttore dell´Ufficio Nazionale per la pastorale della salute della CEI

Programma completo del Corso

Prevenzione come cura

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di VIVIANA DALOISO

Che bella, la parola prevenzione. E che bello nel Paese dei ritardi cronici – dove la messa in sicurezza delle infrastrutture inizia dopo che i ponti sono crollati, quella dei territori dopo le alluvioni, le strette sulle violenze di genere dopo i femminicidi – avere un “Piano di prevenzione” su un tema cruciale come quello delle droghe. A presentarlo il governo, ponendo la lente su una dimensione specifica del problema che Avvenire, tra i primi, ha documentato attraverso reportage e inchieste: quella del Fentanyl e delle sostanze sintetiche.

Responsabili negli Stati Uniti di una delle più grandi emergenze sanitarie che la storia recente abbia conosciuto: oltre un milione di morti in due decenni, un decesso ogni 5 minuti. I numeri di una guerra devastante, combattuta lontano dai fronti che oggi scuotono il Pianeta, e per la quale, non da meno, andrebbe cercata una soluzione di pace.

Del Fentanyl in Europa e nel nostro Paese – finora – solo una minuscola traccia: meno di 200 le morti documentate (concentrate soprattutto in Germania), scarsa presenza della sostanza nel mercato illegale italiano (sequestri e overdose si contano sulle dita di due mani) e soprattutto impercepibile coinvolgimento dei giovani, i più colpiti invece, in generale, dall’epidemia delle dipendenze. Semplice fortuna, secondo alcuni: il business del narcotraffico internazionale non avrebbe interesse a trasferire il suo mercato di qua dall’Atlantico, visto il diverso meccanismo della domanda e dell’offerta di sostanze.

Questione di tempo, per altri: quell’interesse è destinato a crescere, complice il taglio della produzione di oppio nei campi dell’Afghanistan. In ogni caso, e torniamo al principio, la prevenzione è una buona notizia: per una volta ci muoviamo in anticipo, perché quel che è successo altrove non accada anche da noi.

Come ci muoviamo? Anzitutto con più controlli e pene più severe per chi dovesse essere sorpreso a spacciare, in linea con altre “strette” dell’esecutivo, non solo in questo ambito. Poi con un percorso di formazione destinato alle forze dell’ordine, agli operatori sanitari e agli insegnanti, ancora tutto da definire nel concreto, come il coinvolgimento del mondo dei servizi e delle comunità. Sono questi ultimi, va ricordato, i veri attori della prevenzione sul campo e della cura di chi viene risucchiato nel vortice delle dipendenze. E “prevenzione” invocano da anni, spesso inascoltati se non disarmati, almeno da quando il Fondo antidroga è stato azzerato e le (poche) risorse destinate al comparto sono confluite altrove, nel grande calderone delle emergenze sociali. Di prevenzione c’era e c’è dunque bisogno ben oltre il Fentanyl, in un’Italia i cui ragazzi sempre più spesso – e sempre prima – sono devastati dalle dipendenze da alcol, cibo, gioco.

Sostanze libere e legali, che per altro ci ricordano quanto il dibattito politico sulla legalizzazione della cannabis sia sterile, oltre che sradicato dalla realtà e anacronistico. Di prevenzione, ancora, c’è bisogno sotto la forma di educatori specializzati, di strutture al passo coi protocolli scientifici ormai affermati ovunque, di percorsi strutturali e continuativi all’interno dei quali le dipendenze (e le tossicodipendenze in particolare) siano trattate non a spot.

Il Fentanyl, col suo Piano dedicato, è pertanto anche una buona occasione per non mettere (non mettere più) al centro la droga soltanto – la sua letalità, il consumo, lo spaccio – ma le persone. Ce lo hanno insegnato i padri del sistema dei servizi e delle comunità nel nostro Paese (molti sono stati sacerdoti), nato quando in Italia si moriva di eroina agli angoli delle strade, negli anni Ottanta, e i tossici facevano paura perché si vedevano, come si vedono oggi nelle metropoli degli Stati Uniti. Allora si decise di accoglierli, di guardare dentro le loro storie, di capire da quali bisogni e da quali domande era nata la loro dipendenza, ricostruendo i loro percorsi di vita oltre che la loro salute. Educazione, prima che disintossicazione. Quel sistema divenne modelli internazionale. Lo Stato ne riconobbe il merito, poi gradualmente si adagiò sul fatto che i servizi e le comunità se ne occupassero da soli, lontano dagli occhi. E quando i tossici sparirono dalle strade, sparirono troppo spesso anche per lo Stato. Oggi le dipendenze travolgono i nostri figli soprattutto online, numeri e ricerche confermano che mancano loro riferimenti, spazi e ascolto, indicano che dopo il Covid i ragazzi sono sprofondati nell’abisso della solitudine e della sofferenza. Se vogliamo intervenire, se vogliamo prevenire, non possiamo fermarci all’allarme Fentanyl e a tenere le strade e le piazze “pulite”. Il mondo di chi coi ragazzi feriti lavora ogni giorno ha esperienza e proposte. Va ascoltato.

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Convocazione della nuova Consulta Nazionale dell’Ufficio di pastorale della salute della CEI

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Attesa da qualche tempo la ridefinizione e la conseguente riunione della Consulta dell’Ufficio Nazionale per la pastorale della salute della CEI, l’11 marzo 2024 i componenti sono stati invitati per il primo incontro.

È sembrata subito una sorta di convocazione degli stati generali del settore. La maggior parte in presenza, alcuni online, pochi gli assenti, per altro giustificati, si è subito notato un certo entusiasmo nel ritrovarsi.

Apprezzata l’apertura del direttore, don Massimo Angelelli, che ha ricordato i fondamenti di questa pastorale aperta al futuro: siamo relazione, siamo nella chiesa, siamo nel servizio sanitario nazionale, siamo la speranza dei sofferenti, dei curanti e dei familiari. Ha fatto seguito un ampio dialogo, che ha arricchito i suggerimenti iniziali con spunti di estremo interesse. Questo ha manifestato la chiara competenza dei presenti nel proprio settore, unito al desiderio di collaborare, specie negli aspetti a volte carenti.

La presenza di mons. Carlo Roberto Maria Redaelli, presidente della Commissione Episcopale per il servizio della carità e salute, ha qualificato l’assemblea, ricordando l’importanza di questo ambito. L’Arcivescovo ha menzionato le priorità che la stessa Commissione Episcopale si è data per la salute, affidandone la realizzazione all’Ufficio Nazionale.

Tra i compiti impegnativi vi è la stesura delle linee guida per la pastorale della salute in Italia, il cui elenco sommario è stato condiviso dal Direttore. Si è parlato dell’imminente Giubileo del 2025 e del prossimo convegno nazionale che si terrà a Verona nel mese di maggio.

L’inizio è stato incoraggiante e quando si parte col giusto si conferma la speranza che qualcosa di buono si potrà fare.

Gianni Cervellera


Corso FC23.3 – La malattia: conseguenza della colpa?

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Terzo webinar di formazione su «“Quei diciotto sotto la Torre di Siloe”. La responsabilità del male», dal titolo: La malattia: conseguenza della colpa?. Il Corso sarà tenuto online, giovedì 14 marzo 2024 dalle ore 15,00 alle ore 16,30.

La partecipazione ai Corsi è gratuita ma è necessario iscriversi online. L´iscrizione viene fatta per l´intero Corso scelto e non per ogni singolo appuntamento. Il giorno della lezione verrà inviato via mail il link per accedere al canale YouTube.

Per informazioni contattare la Segreteria dell´Ufficio Nazionale per la pastorale della salute: tel. 06.66398.477 – salute@chiesacattolica.it

Relatore del corso: fra Gian Carlo Lapic´, Segretario Provinciale della Provincia Lombardo-Veneta dell´Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio – Fatebenefratelli, dottore in teologia morale

Programma completo del Corso