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“Come il popolo d’Israele al tempo di Mosè, i migranti spesso fuggono da situazioni di oppressione e sopruso, di insicurezza e discriminazione, di mancanza di prospettive di sviluppo…trovano molti ostacoli nel loro cammino: sono provati dalla sete e dalla fame; sono sfiniti dalle fatiche e dalle malattie; sono tentati dalla disperazione”. Papa Francesco, nel Messaggio per la 110ª Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, descrive così la sofferenza di milioni di persone che lasciano le loro case e i loro affetti.
Secondo il Rapporto Global Trends 2024 dell’Unhcr, agenzia dell’Onu per i rifugiati, negli ultimi 10 anni sono raddoppiate, soprattutto a causa di vecchi e nuovi conflitti, e a maggio erano 120 milioni.
Dal 1991, attraverso il Servizio per gli interventi caritativi per lo sviluppo dei popoli, la Chiesa cattolica italiana, grazie ai fondi dell’8xmille, ha cercato di accompagnarle e dare loro conforto finanziando 166 progetti specificamente a favore di migranti e rifugiati in 31 Paesi per un totale di oltre 31,5 milioni di euro.
Nell’ultimo Rapporto del “Norwegian Refugee Council” (NRC), pubblicato lo scorso 3 giugno – a ridosso della Giornata mondiale del Rifugiato delle Nazioni Unite – sono elencate le dieci crisi di sfollati più dimenticate al mondo, con numeri in aumento e bisogni crescenti. Si tratta sempre di emergenze croniche, con migrazioni, violenza, fame e mancanza di servizi essenziali.
Nove riguardano Paesi africani e una l’Honduras dove – a causa della violenza diffusa, del crimine organizzato e degli shock climatici – ben 3,2 milioni di persone necessitano di aiuti umanitari. Il Paese è un punto di transito per molti migranti diretti verso il nord, di cui spesso si perdono le tracce.
La Chiesa locale da oltre 30 anni sostiene i migranti, gli sfollati, i rifugiati e le famiglie nei loro bisogni fondamentali e nel richiedere il rispetto dei loro diritti. Grazie al contributo dell’8xmille, ha potuto aiutare anche tante famiglie di migranti scomparsi riunite in comitati nella costante ricerca di verità, giustizia e riparazione. Come quello di El Progres, vicino al villaggio di Guaymas, dove vive Doña Isaura, dal maggio 2004 alla ricerca di suo figlio Oscar René. Ricorda che nell’ultima comunicazione lui le ha detto di non preoccuparsi perché stava bene, stava lavorando in Messico e avrebbe cercato di tornare il prima possibile. In tutti questi anni non ha più sentito suo figlio, né la parola “Viejucha”, come lui la chiamava affettuosamente. Sin dal primo momento è stata accolta nel comitato con molta solidarietà, si è sentita parte di un gruppo. “Come madre – dice – conosco molto bene il dolore che si prova ogni giorno nel non sapere nulla di un figlio. Ma camminando insieme tutto diventa più sopportabile e prima o poi avremo delle risposte”.
Volti, testimonianze di vita, di sogni, in ogni angolo del mondo
Spesso i rifugiati sono costretti a vivere per anni, decenni, in campi profughi in condizioni precarie. Come accade a Kakuma, nel nord del Kenya, vicino al confine con l’Uganda e il Sud Sudan. “Mio marito – racconta Mary che è scappata dal Sud Sudan – è morto durante gli scontri. Una notte hanno attaccato il nostro villaggio. Allora ho preso tutti i miei figli con me, abbiamo raccolto quel poco che ci era rimasto e siamo scappati. Ho avvolto in fasce intorno al mio corpo il più piccolo che aveva pochi mesi e quello poco più grande di lui l’ho caricato sulle spalle. I cinque figli più grandi camminavano con me, cercando di rimanermi il più vicino possibile. Abbiamo camminato per mesi; ogni tanto siamo riusciti a fermarci per qualche settimana cercando di recuperare le forze, qualcosa da mangiare e soprattutto qualche soldo per continuare il viaggio. Siamo arrivati al campo di Kakuma dopo circa quattro mesi. Siamo qui da molto, la situazione non è migliorata. Ci sono molte famiglie, anche con figli disabili, e donne sole. Siamo di etnie e di aree di origine diverse, ma tutti portiamo i segni di grandi violenze subite e cerchiamo di aiutarci”.
Anche la Terra Santa è da sempre, e oggi ancor di più, teatro di violenze e di migrazioni. La famiglia di Mohammad, ad esempio, dalla Palestina è fuggita in Libano, la “Terra dei cedri”, che oltre ai campi palestinesi accoglie ancora centinaia di migliaia di rifugiati siriani. Da quando è nato Mohammad vive lì, ma sa bene che le sue radici sono in Palestina. “L’esplosione del porto di Beirut il 4 agosto del 2020 – racconta – ha spazzato via la vita e la quotidianità di moltissime persone. Nonostante le nostre difficoltà, noi rifugiati palestinesi siamo rimasti al fianco del popolo libanese in questa tragedia che si è aggiunta alla terribile crisi economica e sociale del Paese. Abbiamo lavorato mesi per aiutare la città e la sua gente a rialzarsi dal dolore e dalle macerie”.
Nel dolore e nella sofferenza fiorisce comunque la solidarietà e la Chiesa cerca di mantenere accesa la speranza nella storia di tante persone. Succede ad Ankawa, l’unico quartiere cristiano alla periferia di Erbil, nel Kurdistan iracheno. Nel caldo spietato e cocente dell’estate irachena, il 6 e 7 agosto 2014, la zona è stata al centro dell’attenzione internazionale: circa 75.000 sfollati sono arrivati lì per scappare dalla furia dell’Isis. Mosul, l’epicentro degli attacchi, era a soli 85 chilometri di distanza. Nonostante la drammaticità della situazione l’arcivescovo cattolico caldeo Bashar Warda di Erbil, con determinazione, è riuscito a far crescere un grande seme di speranza, realizzando, grazie anche al sostegno della Chiesa italiana, l’Università di Erbil. Senza questa opportunità molti giovani sfollati sarebbero stati condannati alla diaspora. A dieci anni dall’avvio, oggi l’Università ha 11 corsi di laurea altamente correlati al mercato del lavoro, 590 studenti (24% musulmani, 14% yazidi), il 59% dei quali donne. “Amo l’università perché è aperta a tutti, c’è libertà di parola e fornisce un’istruzione avanzata”, dice Mohammed, uno studente musulmano. “È una comunità mista e ogni giorno apprendiamo cose nuove sentendoci arricchiti dall’incontro, dal confronto, dalla cultura degli altri”, aggiunge Almas, uno studente yazida, la minoranza etnico-religiosa di lingua curda. Con l’accreditamento universitario, osserva Rolan, studente cattolico caldeo, “potrò avere opportunità di lavoro in futuro e sviluppando nuove competenze potrò aiutare il mio Paese, sentendomi parte integrante del tessuto sociale”. L’Università è dunque un ambiente che consente ai giovani di tutte le fedi di dialogare, di studiare e vivere insieme. E apre prospettive di futuro per comunità capaci di trarre linfa dalle differenze.